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Mirko Da Corte

1 marzo 2021
Vision

Abbandonando il Web2.0

“Non andrà tutto bene, se andrà tutto come prima”

Natalino Balasso – Italian comic actor

Il web moderno, o Web2.0, presenta diverse insidie, della quale gli utenti allo stato attuale sono spesso molto inconsapevoli. L’evoluzione storica dei mezzi di comunicazione di massa ci ha portato attraverso varie fasi, di volta in volta tentando di risolvere problematiche che si manifestavano nella fase precedente. Riuscire a vedere in anticipo queste problematiche non è mai semplice, poiché si tratta di un’attività pionieristica che mette l’individuo in grado di proiettare il pensiero verso ciò che dovrebbe, e molto probabilmente sarà, il web del domani. È quindi necessario porsi in uno stato di apertura mentale, ed accettare che dietro a quello che vediamo ed utilizziamo quotidianamente vi possano essere alcune dinamiche non sempre evidenti, e comunque spesso molto influenti.

Vediamone assieme alcune, e come in Etherna crediamo che sia possibile affrontarle per proseguire verso l’evoluzione delle comunicazioni di massa.

Un punto di vista storico

Precedentemente all’avvento di Internet vi fu un periodo nella quale giornali cartacei e televisioni erano in assoluto i media dominanti nella comunicazione di massa. L’informazione era unidirezionale, da pochi a molti, e non vi era modo alcuno di replicare pubblicamente, se non tramite lettere aperte agli stessi gestori delle reti, i quali però avrebbero dovuto pubblicarle, o tramite pubbliche manifestazioni. Vi era fondamentalmente un monopolio dell’informazione, la quale era talmente uniformizzata nel tipo di messaggio che il celebre scrittore Pasolini arrivò dire, parafrasando, che “Il medium televisivo è arrivato a portare l’omologazione del pensiero degli italiani, come il periodo fascista non era arrivato a fare prima”. Affermazioni molto forti, che tuttavia descrivono molto bene il pensiero occidentale consumistico filoamericano che si stava instaurando. Non c’era molto spazio per esprimere idee divergenti allora, ma come vedremo, a dispetto di quel che si possa credere, ora non va tanto meglio.

Negli anni ’90 poi vi fu il boom di Internet, e nacque il web. Quello che poi in seguito venne chiamato “Web 1.0”. In sostanza reti di computer potevano finalmente mettere in comunicazione diretta le persone le une con le altre, potavano scambiare idee e soprattutto potevano attingere ad opinioni differenti, discordanti. Potevano confrontarle, e farsi un’opinione loro. Esistevano i blog, esistevano le chat, nacquero le prime filosofie e manifesti hacker. Vi era qualcosa di nuovo, un’etica nata dal basso, e nuovi spazi da esplorare.

Tuttavia, non è tutto oro ciò che luccica. Il web era difficile, costoso, impegnativo. Obbligava a mantenere occupato il telefono, le bollette salivano e per utilizzarlo era necessario imparare a dominare un sacco di concetti nuovi: browser, url, html, directory, email, provider. In sostanza, era per pochi. Ad oggi son concetti che per lo più diamo per scontati, ma allora non era così. Inoltre, per chi voleva render disponibile un proprio contenuto sul web ad altri, come ad esempio offrire degli articoli su di un proprio blog, la vita era ancora più complessa. Doveva avere a che fare con la composizione di pagine web, con provider di hosting, doveva fisicamente imparare a scrivere del codice html, o trovare chi lo facesse per lui. Molto impegnativo. Ma era così, era qualcosa di nuovo ed ovviamente all’inizio c’erano soltanto i pionieri.

Con l’avvento dei social network, con accezione a più ampio respiro, inizia la fase 2.0 del web. In questa fase il web si scopre dinamico. Molte pagine web, scomposte e difficili da mantenere, diventano programmi eseguiti su dei server, i quali ora divengono in grado di elaborare le richieste, e fornire contenuti su misura al richiedente. Questi provider sono inoltre in grado di raccogliere informazioni generate dagli utenti e pubblicarle per loro, rendendole disponibili a tutti. È venuta quindi meno la necessità di dover impararsi un linguaggio di composizione pagine come l’html, di dover pagare di tasca propria un provider, di dover spendere tempo e risorse nella costruzione di una grafica o nello studiare soluzioni di navigazione. L’accesso al sito si fa oramai dagli onnipresenti motori di ricerca, la condivisione di un messaggio la si fa con un post su di un servizio social, la registrazione e necessaria profilazione al portale la si fa gratuitamente e semplicemente, con pochi click ed un indirizzo email. Chiunque è in grado ora di utilizzare e di pubblicare su internet. Chiunque ha una propria voce.

Anche qui, però, non è tutto oro ciò che luccica. Il giocattolino della libertà di espressione dura poco, e non appena il vecchio sistema di chi amministrava l’informazione prima si accorge che la cosa sta sfuggendo di mano, inizia a fare pressione per regolamentare questi grossi provider. L’indipendenza dal fornitore unico che si era vista con l’avvento del web1.0 infatti viene meno, e gli utenti tornando ad affidarsi a pochi e colossali portali, accettando per lo più inconsapevolmente di non essere più i veri proprietari di ciò che pubblicano. Ecco quindi che tornano ad inframezzarsi dei soggetti terzi tra i creatori di contenuto ed il loro pubblico, inserendo delle nuove e vecchie dinamiche che vedremo a breve.

La pubblicità

Nel web1.0 non c’era molta pubblicità. Aprire un contratto con un inserzionista pubblicitario era difficile, molti blogger erano indipendenti e realizzavano i loro siti per passione, e non tanto per trarne un vero e proprio profitto. Questo ovviamente andava bene all’inizio, ma presto ci si rese conto che l’entusiasmo non bastava, e serviva un modo per capitalizzare il volume di visitatori, e costruirvi perciò un business sostenibile. Nacquero quindi i circuiti pubblicitari più importanti, e fu ad esempio l’ambito in cui riuscì su tutti ad affermarsi Google, che tramite il suo fantastico motore di ricerca riusciva sempre più a fornire risultati pertinenti, e link sponsorizzati ad hoc per le ricerche effettuate. Ad oggi è tutt’ora così, se non che le pubblicità del colosso hanno iniziato ad uscire dal motore di ricerca, hanno iniziato a penetrare gli stessi siti di destinazione, e a seguire le navigazioni di sito in sito. Se capiscono che provi interesse per un prodotto, e riescono a seguirti lungo il percorso di esplorazione, puoi essere sicuro che per settimane non vedrai altro sponsorizzato ai margini delle pagine visitate.

Appare quindi evidente che il vero business di questi operatori non è più direttamente relativo al servizio offerto, ma è relativo alla pubblicità che ti riescono a mostrare, e quindi all’acquisto che riescono a spingerti a fare. La cosiddetta “conversione”. Il cliente ultimo non è infatti l’utente che usufruisce del servizio, ma è l’inserzionista che paga lo spazio di inserzione. L’utente a questo punto diviene il prodotto, alla quale è necessario sottoporre più spazi pubblicitari, ed il più focalizzati possibile, in modo da massimizzare il numero di click ricevuti dagli inserzionisti.

Vi è quindi un importante conflitto di interesse in atto: il web non è più costruito per soddisfare le necessità del fruitore ultimo, ma è modellato per massimizzare la conversione all’acquisto di un prodotto. Accade infatti che taluni argomenti, ad esempio di attualità come “terrorismo” o “covid”, non piacciano molto agli inserzionisti, i quali non gradiscono essere associati a contesti che scatenino sensazioni “negative” nella mente dei visitatori. Di conseguenza accade che questi contenuti non avranno inserzionisti paganti e non saranno remunerativi per i contenitori, le piattaforme social. Ma ancor di più, agli inserzionisti non piace nemmeno comparire a fianco di contenuti che parlano di questi argomenti, e quindi faranno pressione perché siano i contenitori stessi a doversi adattare alla volontà loro, penalizzando chiunque pubblichi materiale non gradito.

È il caso ad esempio di YouTube, dove hanno evidenziato che interi argomenti, come ad esempio l’appartenenza dichiarata al mondo LGBT, o il voler parlare apertamente di argomenti controversi, anche con spirito critico, avrebbe portato a demonetizzazione immediata del video o dell’intero canale. E la demonetizzazione non è fine a sé stessa, ma per ridurre i costi e per render felici gli inserzionisti porta alla penalizzazione tramite “shadow banning” dei contenuti stessi sulla piattaforma. Lo shadow banning è infatti una metodologia moderna per far “sparire” dalla rete dei contenuti o delle fonti di informazione, senza operare dei veri e propri “ban” facilmente contestabili sul contenuto. Viene infatti operato in maniera silenziosa, graduale e per lo più invisibile, sino a che non diviene evidente per gli effetti che comporta. L’affetto da shadow ban non viene notificato di alcunché, continua a visualizzare come pubblicato il suo contenuto, ma all’atto pratico esso non compare più nelle ricerche, non compare più tra i contenuti suggeriti, non compare nemmeno più alle volte tra i feed delle fonti alle quali si è iscritti. In sostanza esisti, ma nessuno ti trova, ed è come se non esistessi. È più difficile da dimostrare, è più difficile da contestare, ma esiste e viene applicato.

Sappiamo che l’algoritmo che determina i ranking del materiale mostrato è imperfetto ed in continua evoluzione, e può essere che ciò che è demonetizzato e quindi penalizzato oggi non lo sia domani, e viceversa, ma di fondo rimane che arbitrariamente il contenitore può decidere cosa è consentito e cosa non lo è sulla sua piattaforma. E va bene così, lo può fare, ma dobbiamo essere consapevoli che il servizio che opera con la pubblicità non è costruito per soddisfare le nostre esigenze, ma necessariamente quelle di mercato, ed ovviamente le piattaforme social non vedono di buon occhio l’idea di comunicarcelo. Inoltre, in generale quasi mai le regole utilizzate da questi algoritmi per premiare o penalizzare i contenuti sono rese trasparenti, ma la maggior parte delle volte possiamo, al più, tentare di derivarle applicando della retro-ingegneria ai risultati che otteniamo. La domanda che in generale dobbiamo porci per comprendere quali regole amministrino un servizio è: chi paga?

L’influenza del contenitore

Avere grandi contenitori centralizzati inoltre ci sta riportando alla situazione che avevamo al periodo in cui televisioni e carta stampata dominavano la scena. Siamo sottoposti allo stesso potere di influenza sull’informazione, solo che ora il contenuto è molto meglio progettato su di noi. Abbiamo la sensazione che tutto sia libero ed accessibile, ma ci rendiamo poco conto della presenza dello shadow banning e dei contenuti costruiti su misura per influenzare la nostra opinione. Senza considerare che sono strumenti che ci incentivano a creare ed accettare di buon grado l’imposizione di un framing psicologico, con contenuto che sia sempre “di nostro gradimento” basandoci sulle “visualizzazioni precedenti”, ma qui si aprirebbero altre grosse parentesi. Il problema al principio è che sono strumenti nuovi, molto più sottili nel loro funzionamento di ciò che ci hanno insegnato a riconoscere le generazioni precedenti, ed è per questo che non abbiamo preparato ancora i necessari anticorpi individuali atti ad individuare tali comportamenti nei servizi che adoperiamo.

Pensiamo che il contenuto sia libero solo perché proviene da una moltitudine di creator di nostra fiducia, ma ignoriamo che se il contenitore non è effettivamente libero, non saremo in grado di sviluppare gusti e preferenze che si discostino da ciò che ci viene offerto, il quale saremo portati a pensare che sia l’unico spazio di opinione valido.

Prendiamo ad esempio il caso di Cambridge Analytica, che ha fatto molto discutere di sé. In quel caso è venuto all’evidenza di massa ciò che per gli addetti al settore era evidente da un pezzo: i dati degli utenti sono raccolti ed intrecciati per schedare interessi ed inclinazioni personali, con precisione al singolo individuo. Quindi la popolazione viene categorizzata in settori, determinando l’appartenenza di ciascuno. Vengono in seguito sviluppate delle strategie di conversione specifiche per ciascuna categoria. In questo modo sarà poi semplice sottoporre a ciascuno una campagna anziché un’altra, scegliendo di volta in volta la migliore in base a semplici metriche. Le campagne saranno quindi in grado di far leva sui punti sensibili dell’individuo selezionati dall’analisi preventiva, ed i risultati verranno raccolti ed analizzati per migliorare la campagna successiva. Nel caso di esempio lo scandalo è stato evidente, ma queste operazioni di profilazione erano compiute prima, continuavano ad essere compiute durante lo scandalo, e sono compiute tutt’ora. Solo per lo più il tutto avviene in sordina.

Per poter avere dell’informazione libera, è bene quindi sincerarsi che il contenitore come prima cosa lo sia effettivamente. Nulla potrà mai essere affidabile, se sappiamo o anche solo sospettiamo che l’intermediario possa avere dei secondi fini, e possibilità di alterare i risultati. Nel caso della pubblicità questi sono palesi, ma se le influenze sono esterne, come nel caso di influenze politiche, queste possono essere molto più insidiose in quanto meno evidenti.

Le fake news e l’Ipse dixit

Dalle elezioni americane del 2016 abbiamo sdoganato quello che si può intendere a tutti gli effetti un neologismo: quello della “fake news”. Sostanzialmente “fake news” non è un concetto nuovo, “menzogna” poteva essere una parola adatta a descrivere il contenuto in oggetto, ma serviva un nuovo nome per concretizzare quello che doveva essere affrontabile con nuovi strumenti di controllo accettabili dalle masse.

La “fake news” infatti viene percepita molto più concretamente di un termine che descriva un’idea immateriale come “menzogna” o “bugia”. Descrive un nemico identificabile, alla quale è facile dare un’identità univoca. Possiamo quasi vedere una personalità dietro al termine, che ci viene facile additare come il male che va sconfitto, ciò da cui dover prendere le distanze, tutto ciò che non è scientifico, comunemente accettato, o determinato da un’entità “di fiducia”. In sostanza siamo stati abituati a suddividere le informazioni in due grandi categorie, “vero o attendibile” e “fake news”. Chi però è in grado, e purtroppo si prende l’incarico, di determinare cosa vada da una parte o dall’altra non siamo soltanto noi, come invece dovrebbe essere, ma come abbiamo discusso poco fa può essere ampiamente influenzato dal contenitore e dalle forze che vi fanno pressione.

Di questa opportunità se ne sono infatti accorti molto presto anche i grandi produttori di informazione, i quali congiuntamente hanno realizzato che andava data una forte identità negativa a tutti coloro che portavano idee differenti da quelle sulle quali loro ponevano i loro interessi, economici e politici. Ecco quindi che nascono grossi movimenti contro le “fake news”, abbracciando in taluni casi anche gli stessi organi di stato, che ora iniziano a fare propaganda all’apparenza “extra politica”, ma che propongono concetti che possiamo senza tanti problemi definire “verità di stato”. Giusto per ricalcare la citazione al pensiero di Pasolini di inizio articolo.

Portiamo in esempio un caso tutto italiano. Nel 2017 Laura Boldrini invia una lettera aperta a Facebook chiedendo che vengano prese misure sul social contro gli autori di insulti e fake news. Ora, finché si parla di mantenere l’educazione sulla rete è un conto, ma per questo esiste già la legge sulla diffamazione, che se venisse correttamente applicata già sarebbe sufficiente. Ma quando si parla di fake news, la questione si fa molto più delicata, e stranamente nel comunicato passa quasi in secondo piano rispetto al voler eliminare gli insulti. Quasi per voler nascondere la richiesta di censura dietro ad un velo molto più condivisibile di richiamo al rispetto personale.

Ma è nel 2020 che il governo alza il tiro, quando l’AGCOM, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni italiana, richiede la rimozione di alcuni contenuti dalla rete e dai media televisivi perché accusati di diffondere fake news pericolose per l’individuo, quali ad esempio l’utilizzo di Vitamine C e D per contrastare l’infezione del virus Covid-19. Cito:

“L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, (…)  ha deciso di avviare un procedimento sanzionatorio (…) nei confronti delle società che editano i canali 61 DTT e 880 della piattaforma satellitare i quali diffondono il programma di Adriano Panzironi, “Il Cerca Salute – LIFE 120”.

A seguito di segnalazioni e del monitoraggio d’ufficio, Agcom ha accertato che il signor Panzironi, le cui trasmissioni sono già state oggetto di sanzione da parte dell’Autorità, reitera la condotta attraverso la diffusione di informazioni fuorvianti e scientificamente infondate su vari generi di malattie e possibili cure o modalità di prevenzione delle stesse. Il signor Panzironi ha inoltre dedicato parte della programmazione a “quello che non ti hanno detto del coronavirus”, arrivando a suggerire l’utilizzo di vitamina C e D - prodotti commercializzati da LIFE120 e pubblicizzati nel corso delle trasmissioni - per prevenire l’infezione. Tale condotta è oggettivamente grave in ragione dell’attuale emergenza sanitaria e del momento drammatico per il Paese. Il procedimento sanzionatorio avviato prevede che l'Autorità, ritenendo grave e reiterata la condotta, possa disporre nei confronti dell'emittente la sospensione dell’attività per un periodo sino a sei mesi e, nei casi più gravi, la revoca della concessione o dell'autorizzazione. (…)

Per contrastare la diffusione di informazioni false o comunque non corrette, l’Autorità ha invitato i fornitori di piattaforme di condivisione di video ad adottare ogni misura volta a contrastare la diffusione in rete, e in particolare sui social media, di informazioni relative al coronavirus non corrette o comunque diffuse da fonti non scientificamente accreditate. Queste misure devono prevedere anche sistemi efficaci di individuazione e segnalazione degli illeciti e dei loro responsabili.

Roma, 19 marzo 2020”

In questo lo stato abbraccia un’opinione ufficiale, imponendola sulla comunicazione, andando per altro contro l'articolo 21 della costituzione italiana all’ sulla libertà di pensiero, parola e stampa, arrogandosi il diritto di impugnare la sacralità di una scienza che non è tale, in quando fondatasi sull’ipse dixit di alcuni scienziati graditi al potere attuale, ed in effetti puntualmente smentiti dalla scienza, quella vera, che è in grado di discutere e di dimostrare alla fine l’esatto contrario, come ad esempio fu questa ricerca depositata tra le pubblicazioni scientifiche che titola “Evidence that Vitamin D Supplementation Could Reduce Risk of Influenza and COVID-19 Infections and Deaths”.

Ora, al di là del risultato della ricerca in sé che entrerebbe troppo nel merito, il punto chiaro e da evidenziare è che la scienza è in continua discussione, pone le sue stesse fondamenta nella discussione libera ed aperta. È normale confrontarsi con idee differenti e contrastanti, e chiunque impugni l’argomento “scienza” come una cosa certa ed imponibile è tutto fuorché uno scienziato, sta facendo comunicazione dozzinale per le masse impiegando l’ipse dixit (letteralmente “lui stesso l’ha detto”), ed è quanto di più pericoloso esista.

Non bastasse, poiché l’argomento Fake news è molto sentito all’interno degli organi di stato, il Sottosegretario di Stato Andrea Martella, responsabile all’Editoria, in seguito decide di istituire ufficialmente una “Task Force” governativa “contro le Fake News”. Questa è da lui stesso definita come una “Unità per il monitoraggio contro la diffusione delle fake news”, impegnata quindi all’individuazione e al contrasto di notizie e fonti discordanti dalla verità ufficiali “di stato”. Articoli di e .

Citando Martella dall’articolo di Repubblica sopracitato:

“dovrà essere rafforzato il ruolo della Polizia Postale per consentirle di individuare tempestivamente le cosiddette "fonti tossiche" e di interrompere la catena della loro diffusione nei social”

“Tutte le pubbliche amministrazioni presto dovranno dotarsi di adeguate competenze e figure professionali specializzate nella lotta al fenomeno fake news a tutti i livelli”

“È necessario che il Parlamento, attraverso una legge ad hoc assegni efficaci strumenti all'Agcom, ovvero all'Autorità indipendente per le comunicazioni, per sanzionare adeguatamente chi diffonde fake news”

Queste manovre, in evidente contrasto costituzionale, sono talmente pesanti ed organizzate nell’imposizione di censura che non possono non riportare alla memoria il ventennio fascista.

Il metodo “fake news” quindi è un’arma perfetta e subdola per controllare cosa è discutibile e cosa non lo è, ed agisce sulla percezione che ciascuno di noi ha sul problema. Se lo stato dicesse “non devi pubblicare questa cosa perché a noi non è gradita” sarebbe semplice tacciarlo di censura, ma citando un’ipotetica scienza attribuita da loro come portatrice di “verità scientifiche”, permette di far pressioni sui social media, con il benestare del cittadino poco avvezzo al metodo scientifico che penserà “deve essere corretto, lo dice la scienza”. Ma questa non è scienza, questo è scientismo, che è un’altra cosa. La scienza significa mettere in discussione ogni cosa, significa essere scettici su ogni cosa ed esigere delle dimostrazioni per ogni singola cosa. E questo si può ottenere solamente tramite la libertà di discussione su ciascun argomento, senza esclusione alcuna. Lo scientismo invece è a tutti gli effetti una religione di fede, basata sull’idea che “qualcuno ci avrà sicuramente pensato per noi”, e che porta ad accettare di buon grado in sostanza qualsiasi comunicazione in arrivo “dagli scienziati” ufficiali.

La libertà d’opinione ora è, dal dopoguerra in poi, più che mai messa in pericolo, ed un governo che permette questo non si può né dire democratico, in quanto limita la formazione di un libero pensiero, e né deve azzardarsi a parlare di metodo scientifico. Ed i grandi contenitori del web2.0 ancora una volta hanno un ruolo determinante in tutto questo.

Verso il Web3.0

Un cambiamento non solo è auspicabile, ma è necessario per non assistere all’insorgere di nuovi totalitarismi dell’informazione. Fortunatamente gli strumenti e le coscienze necessarie per cambiare si stanno evolvendo. La blockchain dal 2008 ad oggi ha dato un primo scossone al tavolo, e molto altro sta per sorgere sulle fondamenta di questa tecnologia. La cultura della privacy è ancora scarsa, ma piano alla volta si sta espandendo anch’essa. Strumenti per il decentramento della distribuzione dei dati si stanno evolvendo, e da qui a pochi anni ci apparirà probabilmente normale utilizzarli. Questi nuovi strumenti e paradigmi implementativi definiranno i principi fondanti dell’evoluzione che sta arrivando: il Web3.0.

Iniziamo un’analisi delle possibili soluzioni dal problema dell’influenza della pubblicità. Partiamo dal concetto che dobbiamo scordarci che ciò che troviamo sul web sia gratis. Non è mai gratis. Se un servizio non lo si paga monetariamente in maniera diretta, è evidente che lo si sta pagando in qualche altro modo, o che qualcuno lo sta pagando per noi. Nel caso particolare di organizzazioni no profit che producano codice open source per la comunità, è possibile che i finanziatori siano utenti benevoli che decidono di donare soldi per una giusta causa, anche se non è forzatamente detto che sia così in ogni caso. Nel caso però di aziende for profit è praticamente impossibile che ciò avvenga. Una volta individuato il modo in cui un servizio lo si sta pagando, la fase successiva è chiedersi se il costo totale reale valga effettivamente il servizio del quale si sta usufruendo.

Il web gratis infatti è un’idea destinata a rimanere unicamente figlia dei nostri tempi, e ci auguriamo che venga abbandonata quanto prima. L’evoluzione della consapevolezza personale in tema di privacy riteniamo possa essere una buona leva in questa direzione, e dal mondo della blockchain, dove ci si abitua a pagare con le fee di transazione il mantenimento della rete, confidiamo che possa emergere un’ottima cultura in tal senso.

Diffidiamo dell’imparzialità di qualsiasi risultato che ci offra del riferimento pubblicitario al suo interno, e rendiamoci conto che una società libera non può permettere che sia il sistema economico, rappresentato dagli inserzionisti, a determinare l’evolvere della coscienza e dell’istruzione degli individui.

Gli utenti finali devono tornare ad essere gli unici veri clienti delle piattaforme, e per far ciò è necessario che comprendano, per gradi, che per avere un servizio libero è necessario pagarlo. Non necessariamente tanto, soltanto quel che basta per coprire il valore che singolarmente avrebbero pagato in costi nascosti, perdendo pezzettini della libertà personale.Per risolvere il problema delle influenze pubblicitarie i servizi devono essere pagati di tasca propria dagli utenti, i quali dovranno a loro volta decidere di preferire l’utilizzo di servizi che non gli sottopongano a pubblicità non richiesta col fine di monetizzazione.

Il secondo problema, quello dell’influenza del contenitore sui contenuti presentati, può essere risolto in un solo modo: adoperando la massima trasparenza sul metodo di selezione dei contenuti verso l’utente finale. Qui la questione può essere ampliata molto, e vi sono implicazioni anche piuttosto importanti sull’impostazione dei business plan delle varie aziende, ma un’impostazione orientata al futuro dovrebbe tendere quanto più possibile ad aprire i dettagli del proprio funzionamento verso l’esterno, almeno nelle componenti più sensibili. Molto si può anche fare da un punto di vista tecnologico, incentivando l’evoluzione e l’impiego di sistemi a database aperti e scaricabili, direttamente o tramite api aperte che li permettano di interrogare con un sufficiente grado di dettaglio implementativo esposto. Dobbiamo quindi esigere il più possibile un’apertura delle società in questo senso, e preferire i servizi che garantiscano un più alto grado di trasparenza. Le società dalla loro invece dovrebbero investire sull’innovazione di queste tecnologie, preferire business plan che sposino il più possibile mentalità open source, e garantire così l’assenza di ogni qualsivoglia alterabilità dei risultati per fini non noti, agevolando la possibilità di eseguire analisi indipendenti sugli stessi risultati quanto più approfondite possibile.

In fine, l’ultimo problema sull’imposizione della metodologia ipse dixit attraverso l’uso della leva fake news. L’unica via percorribile è di garantire di poter avere sempre accesso ad una pluralità di opinione libera, e possibilmente di poter avere strumenti che aiutino l’individuo a svolgere ricerche personali, che lo aiutino ad accrescere la sua comprensione del dominio del problema, e che gli permettano di discutere tali comprensioni ed idee con il resto della community. Per potersi accertare che il diritto a questa pluralità di opinione sia rispettata, è fortemente consigliabile, se non necessario, imporre dal punto di vista dell’azienda una non censurabilità tecnica del dato. Questo significa che gli strumenti devono poter evolvere in maniera tale che, anche volendo, nessuno sarà in grado effettivamente di eliminare fisicamente dei dati in maniera definitiva. Nemmeno l’azienda che gestisce il servizio. I dati dovranno quindi poter essere comunque sempre scaricabili dall’utente, il quale se riterrà dovrà poter essere libero di ricaricarli all’esigenza. Ovviamente, la responsabilità legale del caricamento del dato va scaricato dall’azienda, la quale a questo punto perderà qualsiasi responsabilità su di essi, e va caricato invece sulle spalle dell’utente che sarà l’unico vero responsabile dell’azione svolta. I dati non dovranno quindi mai essere nascosti dal servizio, a meno di violazione evidente di un regolamento pubblico reso noto a priori, e nel caso di violazione del regolamento potrà eventualmente esser fatta rivalsa sull’utente nelle sedi opportune. Solo così possiamo scaricare l’azienda dalla responsabilità, e soprattutto dalla possibilità, di decidere al posto nostro cosa sia discutibile, e cosa no. Tutto deve passare per un vaglio della community, agevolata da strumenti potenti e rispettosa dei regolamenti imposti, in modo che ciascuno possa sviluppare la propria consapevolezza personale, all’interno di limiti noti a priori. L’assistenzialismo alla quale stiamo assistendo purtroppo in questo periodo, utile a giustificare la caccia alle streghe contro le fake news, avrà il solo effetto di produrre popolazioni incapaci di ragionare per proprio conto. Va intrapresa l’azione esattamente opposta.

Quel che emerge è che, al di là delle soluzioni tecniche specifiche impiegabili per qualsiasi problematica proposta, il filo conduttore che accomuna ciascuna di loro è migliorare il grado di trasparenza offerto. Sia esso economico, algoritmico o sul dato. Questo è il principio fondamentale, che in ultima istanza non fa altro che spostare la responsabilità di accertamento sulla qualità del dato dalle aziende e i governi, all’utente finale stesso, e quindi globalmente alla community. Un processo di verifica decentralizzata è quindi necessaria perché tutto il resto si possa applicare, ed ecco perché è così importante una decentralizzazione dei servizi.

Ovviamente Etherna tenterà di adottare quanto più possibile questi tipi di principi nello sviluppo delle proprie soluzioni, e molto ci sarà da dire a proposito in futuro.